Strabismi 11

numero dedicato alla 59ª Biennale d'Arte di Venezia

Il latte dei sogni


In questo numero contributi di: Sergio Breviario, Andrea Contin, Ermanno Cristini, Chiara Gambirasio, Simone Salvatore Melis, Giancarlo Norese, Luca Scarabelli, Olivia Vighi


DESASTER

Marco Fusinato

di LUCA SCARABELLI

 

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Pensieri fusi, suono fusi, immagini fusi, parole fuse, parole rumore. Il progetto noise di Marco Fusinato sconnette la dimensione temporale e lineare della causa effetto, attraverso un diluvio di immagini e suoni, blocchi astratti (si può dire così?) di rumore, glitch, distorsioni, potenti e graffianti.

Il suono è sincronizzato con le immagini che appaiono su un grande led wall. L’installazione è anche una messa in prova della durata, tanto che la sua messa in scena coincide con la durata della Biennale stessa, ben 200 giorni. Un crogiolo di possibilità della fisicità e pazienza dell’artista, fatta di allucinazioni, spaesamento, differenza, confusione, disorientamento, blocchi suggestivi e quasi ipnotici di libera ricerca e connessione intransitiva, di disparate situazioni generate a caso. L’aleia sotto il palco si direbbe. Fusinato immerge il clima veneziano nella dimensione del pattern distorto, in cui come ben suggerisce Alexie Glass-Kantor, il test di Rorschach è partitura. Dietro le immagini e i suoni la formazione pregressa di un archivio di immagini varie, presentato con una performance di lunga durata, che si fa presenza e contingenza, con una bella chitarra di alluminio distorta e amplificatori science come un muro nero, con lui sempre seduto su una cassa da trasporto, di spalle, per lasciare un dubbio sotteso allo spettatore sull’effettiva costruzione del suono. Un quadretto è appoggiato a terra giusto sotto gli amplificatori (ma la sua collocazione cambia durante i mesi della performance), è una testa umana mozzata collocata sopra un libro rosso, sembra in putrefazione.  L’insieme è minimal e molto elegante. Quindi, blocchi di rumore generato dallo strumento in feedback saturato, con intensità modulate per essere discordanti, rumore bianco arrotolato su se stesso. Ha un approccio concettuale alla chitarra e il suono lo esplicita. Non gli interessa la tecnica, l’abilità, ma ricercare un proprio modo di suonarla, di muoversi con il suono, conosce i limiti e li supera diagonalmente. Il silenzio è rotto e tutto è stupefacente, potente e imprevedibile. Rumore, ma sembra canto di uccellini. Da qui lo straniante contenzioso, rapporto dialettico tra pieno e vuoto, tra rumore e silenzio, quello della pausa, del distacco, l’ordine e il disordine. L’accumulo di immagini e delle non-note porta Desaster oltre al senso. Il flusso è libero (così come le immagini, scelte dalla rete su diverse piattaforme on line). C’è del primitivo, dell’istintività paradossale nella gestione di un algoritmo e di una macchina progettata per presentarci immagini con velocità determinate e panning, che ci presenta comunque delle ”figure" con riferimenti culturali scelti da Fusinato, provenienti da tutto il mondo e randomizzate, manipolate con la riduzione al bianco e nero, ri-fotografate con il cellulare, sporcate, negativizzate, fuori fuoco. Perfettamente noise. Fusinato ci dice che sono immagini moiré. Immagini infette, disturbate. Resistenti alla rappresentazione. Bellissimo pensiero! Marezzate direi… Un disastro. Desaster, come Los Desastres de la guerra di Goya, un’ opera fondata sull’immaginazione di un uomo provato, un geniale e unico pittore ormai sordo. Desaster nato in piena pandemia mondiale per riscattarsi con l’immaginazione e non impazzire.

L’esperienza. Cosa vediamo? Cosa sentiamo? Tornando al suono e al tempo manipolato di Fusinato… al suo sistema-suono noise mescolato alle immagini rendono il noise, a tratti doom, anche crust, industrial e grind. Generi che si mescolano nell’improvvisazione e nella sperimentazione dove il tempo lineare è sospeso e diventa altro, un tempo spontaneo, il cui segno principale è l’immediatezza del suono, la sua natura elettrica e l’inaspettata convergenza delle immagini. L’insieme ha milioni di possibilità, la performance è sempre diversa, mai ripetuta uguale, ogni momento diverso. Il periodo inaspettato delle immagini in rapporto con l’aperiodico e l’asincrono del suono. Il suono dentro il padiglione si faceva spazio, si avvicinava, si metteva in relazione con il corpo, lo faceva sussurrare, sussultare. Il suono, pur vedendo la sorgente, non veniva verso di noi, era lì. Dentro noi, come oggetto vibrante. Il senso del cosa ascoltare e del dove ascoltare mescolati come sfondo e figura nel momento in cui la percezione fonde i parametri e le possibilità scivolano tra l’una e l’altra condizione. E lui, l’artista, come un corvo sui fili della corrente, a osservare (cit.) …di spalle, le nostre sensazioni, il risuonare dei nostri pensieri, il piacere o il dispiacere, il fondo sonoro della nostra sensualità acustica, della nostra anima toccata dai sui variabili stocastici graffi.

 

 

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ANALISI DETTAGLIATA DI UN DETTAGLIO

Gian Maria Tosatti, Storia della notte e destino delle comete

di SERGIO BREVIARIO

 

Giovedì 21 aprile 2022, pomeriggio, Venezia

Il clima è temperato. Aver anticipato l’apertura della Biennale al mese di aprile (fino a qualche anno fa inaugurava a giugno) evita sofferenze da calura estiva. C’è vento ma il sole è impagabile. Sono in fila con Piero, un amico di vecchia data, per visitare il celeberrimo Padiglione Italia. L’opera esposta, Storia della notte e destino delle comete di Gian Maria Tosatti, è piuttosto chiacchierata. Ieri era il primo giorno di vernice. All’ingresso, dopo una lunga attesa, ci informano che dobbiamo entrare uno alla volta, decisione irremovibile dell’artista. Piero esprime disappunto: io, al contrario, penso che rimanere qualche minuto in solitaria non possa farci che bene. Dopo la visita, ci rivediamo all’uscita posteriore del padiglione; Piero ha un giudizio lapidario: tutta politica e poco altro - dice.

 

Lunedì 6 Febbraio 2023, tarda mattinata, Milano

Durante la scorsa estate, mentre la Biennale seguitava ad essere visitata da migliaia di persone, ad alcuni è capitato di avvistare nelle limpide notti di agosto una nuova costellazione stranamente disposta in linea retta. Non erano astronavi aliene pronte ad invadere la Terra e neppure nuove stelle fuoriuscite da un’inimmaginabile esplosione intergalattica. Erano e sono 1500 piccoli satelliti Starlink, sparati lassù per consentire a noi qua giù di collegarci ad internet anche se ci siamo infilati in una stretta gola tra le più alte montagne svizzere, dove solo gli stambecchi possono tenerci compagnia. La realtà a volte è molto più scioccante e contraddittoria di quanto ci piaccia ammettere. Ho scaricato dalla rete un’immagine di queste lucine, una in fila all’altra. Da un lato ne sono colpito, dall’altro mi chiedo chi abbia autorizzato questa invasione del cielo. E se indirizzassi SkyView verso questa nuova costellazione? Cosa mi direbbe il mio smartphone? Sarebbe in grado di riconoscerla? Basta, sono stanco. Ripenso alla paradossale passeggiata sul piccolo molo ricostruito all’interno del Padiglione Italia; in lontananza, nel buio, si potevano scorgere anche lì alcune lucine, disposte in maniera disordinata, tentativo di portare poesia, invece di innovazione e progresso, nelle nostre vite. È per questa ragione che ho apprezzato Storia della notte e destino delle comete, perché anche se parla ancora una volta del novecento e dei suoi drammi non risolti, anche se è l’ennesimo lavoro su Pasolini da parte di un artista italiano (al prossimo scatta la denuncia dai carabinieri), anche se la volontà di proporre opere intrecciate con la politica e la società rischia di trascinarci in una retorica senza fine, anche se… e metteteci quello che volete, Storia della notte e destino delle comete è un’opera in grado di parlaci e di risvegliare, in ognuno di noi, un senso di appartenenza all’opera d’arte. Per questa ragione preferisco le artificiali e disordinate lucine in fondo al molo piuttosto che le artificiali e ordinate lucine in cielo (ormai non più solo stellato). 

 

Sabato 29 ottobre 2022, pomeriggio, Venezia

Valeria è una ragazza di vent’anni, decisamente longilinea, alta abbastanza per essere leggermente curva in avanti, studentessa in una scuola d’arte, cammina da stamattina con ai piedi degli anfibi Dr. Martens che, su di lei, sembrano enormi. Usciti dal Padiglione Italia ha delle cose da dirmi: “la casa [ndr. Valeria si riferisce all’appartamento ricostruito all’interno dell’opera] mi ricordava quella di mia nonna. Mia nonna è una di quelle persone con tutte le statuette di madonnine e di Gesù ovunque; appesi alle pareti quadri con bambini soli nel bosco con le facce tristi. Mi ha ricordato questa cosa e quindi mi ha terrorizzata”. Le faccio notare che non c’era assolutamente traccia di oggetti simili a quelli descritti da lei nell’installazione appena visitata. Valeria non è d’accordo con il mio appunto e continua: “si invece perché riprende le case vecchie italiane. Anche i crocifissi, un po’ come in tutte le case cattoliche. Ti inquieta ma allo stesso tempo quel tipo di famigliarità ti fa sentire un po’ al sicuro”. Anch’io la rassicuro vedendo sul suo volto la tipica espressione di chi non è certo di quello che sta dicendo. Continua ancora: “poi sono scesa dove c’erano le macchine da cucire. Una ragazza era entrata in un cassone di quelli messi al centro della stanza a fianco ai banchi da lavoro. Sua madre le faceva delle foto con lo smartphone. È arrivata la custode e l’ha fatta uscire. Ma ti pare! quella era una fabbrica dove probabilmente le persone dovevano lottare per avere dei diritti e poi la gente si fa le foto. La stessa roba può essere rivista, rivissuta in altro modo. Quando la vedi senza le persone [ndr. gli operai della fabbrica], senza la situazione di lavoro reale, è quasi estetico come ambiente”.

 

Domenica 8 maggio 2022, pomeriggio, Varese

Intervengo all’inaugurazione di un giovane artista, Gianluca Brando; la mostra si intitola Senza nome. Esposti ci sono diversi oggetti che compongono un ambiente complesso in grado di far rivivere esperienze comuni a chi, come me, decide di immergersi in questo strambo spazio. La mostra mi piace. Anche in questa occasione mi metto a chiacchierare con Piero, l’amico con cui  ho visitato nelle settimane precedenti la Biennale. Gli espongo il mio favore per la mostra di Brando. Ne discutiamo e anche lui ha un giudizio favorevole a riguardo. A Piero piace il fatto che gli oggetti presenti in mostra siano in grado di far percepire sensazioni legate a memorie comuni, senza che tali oggetti siano stati minimamente modificati nella loro struttura fisica; gli piace che si percepisca una storia lontana nel tempo; gli piace la questione che, in sostanza, non ci sia nulla da poter vendere. Finita la mostra e smontato l’allestimento, gli oggetti torneranno alle loro funzioni primarie, quelle per cui sono stati originariamente pensati. Rimugino un istante e poi gli dico - mi ricorda l’opera di Tosatti a Venezia. I nostri sguardi si incrociano. Stiamo in silenzio per qualche secondo, sufficienti per farmi percepire un certo imbarazzo. Lui si gira e se ne va.

 

Giovedì 21 aprile 2022, tardo pomeriggio, Venezia

A volte piccoli dettagli sono in grado di far emergere ricordi sopiti. Un dettaglio può essere un ponte in grado di condurci in altri luoghi del pensiero, pur restando fisicamente immobili. Mi ritrovo ad analizzare ossessivamente la testa della vite utilizzata, con assoluta probabilità da un allestitore, per fissare lo stipite della porta al muro. Sono lì, fermo, sulla soglia che divide o unisce le due stanze che compongono la casa (parte dell’opera di Tosatti) che mi verrà tempo dopo descritta da Valeria come inquietante ma famigliare. La testa della vite che mi ostino ad osservare è piana e con un inserto a croce. Questo tipo di vite si chiama Philips, come l’azienda che per prima l’ha prodotta. Una tecnologia importata, assieme ad un elenco infinito di cose e comportamenti sociali, dagli americani dopo la fine della guerra. La si vede appena emergere dalla superficie legnosa dello stipite della porta. Una porta molto simile a quelle della casa dove sono cresciuto. Quando ero piccolo, negli anni 70, quel tipo di inserto non era ancora in auge o perlomeno non si adoperava ancora per le lavorazioni del legno. Apparteneva al mondo della meccanica. Analizzo questo pressoché inutile dettaglio rendendomi conto che è forse l’unica cosa che non appartiene a questa macchina del tempo che l’artista mi ha costruito tutt’attorno. Spezza l’incantesimo. Il dettaglio della vite, utilizzata per ricostruire gli ambienti che compongono l’installazione, mi fa riflettere sul fatto che tutto quello che sto vedendo non è l’opera di Tosatti; è la scenografia di un teatro che si compie solo quando io e altri come me, entriamo per visitare e partecipare all’atto che ci tramuta, nostro malgrado, da spettatori ad attori. Corpi silenziosi e imbarazzati, costretti ad un tragitto in solitaria. Come zombie giriamo in ambienti in grado di far riaffiorare dal nostro inconscio esperienze vissute ma sepolte nella memoria. Mi sposto dalla soglia della porta verso la stanza d’ingresso dove una grande finestra si affaccia su un altro luogo di lavoro. Ancora oggi, nel tentativo di unire casa e bottega, alcuni piccoli imprenditori decidono di aprire una finestra che consenta loro di vedere lo spazio lavorativo dalla propria abitazione. Dalla finestra vedo due ragazze che, tra le macchine da cucire dello spazio sottostante, ridono e si fanno delle foto con lo smartphone. Giovani - penso. Sembrano riconoscere il valore estetico di quest’opera e la usano per quello che è: una scenografia perfetta per Instagram.

 

Domenica 5 febbraio 2023, ora di pranzo, Milano

Arrivo all’Hangar Bicocca con mio figlio Giorgio (12 anni). Causa allestimento in corso entriamo negli spazi espositivi da un ingresso laterale. Visitiamo le torri di Anselm Kiefer. Mi permetto di spiegare a Giorgio alcuni questioni generali rispetto la serie di opere che sta guardando. Mi ascolta. Sembra attento. Mi dice che per la Giornata della memoria appena trascorsa si è documentato sull’Olocausto e che trova alcune similitudini con la teatralità di questo luogo. Gli rispondo che non userei il termine teatralità ma lui mi ignora. Passiamo alla mostra di Bruce Nauman, installata nell’enorme spazio adiacente, intitolata Neons Corridors Rooms. Anche qui tento di spiegare due concetti base, ma faccio appena in tempo ad informarlo che molte delle opere presenti nello spazio sono percorribili fisicamente dai visitatori per vederlo sparire dentro a Green Light Corridor. L’opera, illuminata da una luce fluorescente verde, è composta da due pareti identiche poste tanto vicine una all’altra da creare uno strettissimo corridoio dove non è per nulla facile entrare. In maniera sistematica visitiamo tutti i lavori presenti nella navata dell’hangar. Rifletto sul fatto che artisti come Nauman ci abbiamo donato la meravigliosa possibilità di concepire l’opera come un dispositivo che necessita del corpo dello spettatore per essere attivato. Mio figlio pare divertirsi molto e giocando interpreta al meglio questa grandiosa possibilità. Entriamo nel cosiddetto cubo, ultimo spazio espositivo a termine della navata, dove è allestito Mapping the studio II, celebre opera video di Nauman che racconta il rapporto tra l’artista e il suo luogo di lavoro. Giorgio non sembra esserne particolarmente colpito. Usciamo all’esterno dell’edificio; la mostra continua. A seguire una serie di 21 tracce audio installate lungo la parete perimetrale compongono l’opera Raw materials. Io e mio figlio ci divertiamo a mimare le voci provenienti dalle casse audio, creando un effetto playback assolutamente straniante. Un po’ come Enrico Ghezzi durante le stupende notti di Fuori orario e quindi anche fuori-sincrono. Anticipo Giorgio e mi fermo una cinquantina di metri avanti a prendere un poco di caldo sole invernale. A lato un cumulo di terra recintata attrae la mia attenzione. Penso che in un posto dedito all’arte tutto possa sembrare arte. Forse questo è un problema, forse no. Giorgio mi raggiunge. Finiamo di visitare la mostra ed entriamo nel bistrot per pranzare. È domenica, il locale è pieno. Ci fanno accomodare ad un tavolino per due persone. Mi guardo attorno e noto esserci altri bambini che, come Giorgio, la domenica mattina hanno sostituito la messa, imprescindibile appuntamento quando avevo la loro età, con la visita al museo. Le due cose non sono così distanti: l’incontro con la divinità cristiana avviene tramite il medium dell’opera d’arte: gli artisti, tempo fa, avevano un solo soggetto a cui dedicarsi; ora non più. Al tavolo a fianco sento discutere animatamente. Nulla di strano ma noto che i commensali sono vestiti con abiti da lavoro e parlano di come una volta si lavorasse in maniera molto diversa rispetto ad ora. Non capisco bene cosa intendano dire ma penso che potrebbero essere gli allestitori della prossima mostra che inaugurerà a brave all’Hangar Bicocca, dedicata ad un artista italiano attualmente sulla cresta dell’onda: Gian Maria Tosatti.

 

 

 


UN QUADRO DI MURO

Maria Eichhorn, Relocating a Structure

di SIMONE SAVATORE MELIS

 

“Metto un quadro su un muro. Poi dimentico che c’è un muro. Non so più che cosa c’è dietro il muro, non so più che c’è un muro, non so più che questo muro è un muro, non so più che cos’è un muro. Non so più che nel mio appartamento ci sono dei muri, e che se non ci fossero muri, non ci sarebbe l’appartamento. Il muro non è più ciò che delimita e definisce il luogo in cui vivo, ciò che lo separa dagli altri luoghi in cui gli altri vivono, non è più che un supporto per il quadro. Ma dimentico anche il quadro, non lo guardo più, non lo so guardare. Ho messo il quadro sul muro per dimenticare che c’era un muro, ma dimenticando il muro dimentico anche il quadro. Ci sono i quadri perché ci sono i muri. Bisogna poter dimenticare che ci sono dei muri e quindi non si è trovato niente di meglio che i quadri. I quadri cancellano i muri. Ma i muri uccidono i quadri. Oppure, bisognerebbe cambiare di continuo, o il muro, o il quadro, mettere senza posa altri quadri sui muri, o cambiare sempre il quadro di muro.”

George Perec, “Specie di spazi”, 1974

 

L’artista Maria Eichhorn (Bamberga, 1962) ci ricorda che dietro un quadro c’è un muro, e non un muro qualsiasi, ma il padiglione tedesco. Al centro del suo progetto c’è il tema dell’identità nazionale e le modalità con cui essa si è espressa attraverso l'architettura. Il progetto di Eichhorn si articola su diversi livelli secondo modalità e mezzi differenti: nel catalogo ci viene presentato uno studio meticoloso sulla possibilità di trasferire per la durata della Biennale il padiglione dalla sua sede nei Giardini, nella città di Venezia viene organizzato un programma di visite guidate ai luoghi della Resistenza, infine nello spazio espositivo l’artista si confronta con la storia dell’edificio. Le fondamenta del Padiglione bavarese del 1903 sono scoperte dalla rimozione di una sezione del pavimento, mentre dalle pareti vengono asportate estese porzioni di intonaco per riconsegnare alla vista gli interventi edilizi del 1938, quando il padiglione – rinominato “Padiglione tedesco” nel 1912 – fu oggetto di un profondo rinnovamento che ne modificò i flussi e i volumi secondo i canoni architettonici del regime nazista.


CERCANDO CORRISPONDENZE

Noah Davis, The Conductor

di OLIVIA VIGHI

 

The Conductor di Noah Davis ha portato in superficie i temi dell’invisibile e dell’incontenibile.

Sono davanti a una tela dipinta, ho dimenticato il contenuto e il titolo di quest’opera, osservo la sua struttura.

L’eco lontano delle opere di R.B. Kitaj mi tornano alla mente, ricordandomi di cosa la pittura sia capace: essere proiezione di sé oltre il confine della tela.

In un'atmosfera di desolazione, la pittura di Davis sembra proiettarsi in una dimensione delle possibilità, nella quale il rettangolo in cui esse sono circoscritte non si limita a definire i propri confini bensì a evocare uno spazio ripetuto, rarefatto, al di là delle forme.

Non al centro, una figura dirige l’orchestra delle opportunità del linguaggio pittorico, occupando lo spazio dell’infinito e del sogno.

L’atmosfera è surreale e gli spazi “vuoti” sono la metamorfosi di una ricerca personale, nella quale cercare le intenzioni del suo autore.

Sono a mio agio con le campiture informi, mi lascio travolgere dalla presunta incompletezza e da accenni di definizione, perché sono la via di accesso all’impercettibile e al senso del fare.

Cerco lo spostamento in quest’opera, quale strumento per la ridefinizione del mezzo.

In quale stadio dell’astrazione mi trovo per poter considerare le ipotesi che vanno via via delineandosi?

La domanda abita lo spazio dell’elaborazione, del processo in atto e per corrispondenze sconosciute, abita l’opera “incerta”; quella che prova a mettere in luce la sua ombra.

E’ intima questa finestra.

Al turbamento si sostituisce la ricerca del mezzo espressivo.

Ma le potenzialità di questa ricerca, in divenire, non hanno più modo di essere esplorate.

La prematura scomparsa dell'artista lascia un senso di privazione, come nel suo linguaggio, nel quale sono accennate le riflessioni del fare, che solo una certa pittura riesce ad evocare.

Come in “Untitled” (2015) o in “The Waiting room” (2008), l’ambiente domestico e l’immaginario surreale convergono e si dilatano nella traccia di ciò che potrebbe essere, in un’espressione più astratta.

La luce californiana si volge all’oscurità, per diventare indagine.

In questa 59a Biennale, sullo sfondo di un immaginario post umano, si può decidere cosa amiamo e cosa no.

Il cambiamento che l’arte chiede a sé stessa, come termometro del dove stiamo andando, rimane in quello che definirei latente.

Ho cercato corrispondenze in una dimensione onirica, e nella incompiutezza ho trovato la ragion d’essere delle nostre ossessioni.

 

 


UN QUADRO DI MURO

Ignasi Aballí , Correzione

di ERMANNO CRISTINI 

 

Quasi invisibile è il lavoro di Ignasi Aballí per il padiglione spagnolo della 59. Biennale di Venezia. Quasi invisibile nel frastuono di una mostra sempre più mainstream, nei contenuti del progetto curatoriale, ispirato alle “fluidificazioni” dell’identità oggi tanto di moda, e nei linguaggi dei vari padiglioni, mediamente votati a intrattenere il visitatore/cliente con l’inevitabile ricorso a mezzi multimediali di varia foggia.

Lo si incontra quasi subito nel viale di ingresso ai giardini il padiglione spagnolo dove non c’è nulla da vedere: nessun video, niente rumore, nessuna coda all’esterno, solo il vuoto. Lì spicca il suono deciso del silenzio entro il colore dell’assenza. Assenza di temi impegnati, assenza di opere, assenza di visitatori, quasi fosse uno spazio in attesa di essere riempito, prima o poi.

E proprio in questa attesa risiede la sua forza. L’opera a cui lo spazio dà forma contiene un gesto minimo e per questo eccezionale. Come il taglio nella tela di Fontana esso “apre” un altro spazio, qui attraverso una correzione che rivela un errore: il disassamento del padiglione al momento della sua costruzione rispetto alla linea del viale e degli altri padiglioni. Un disassamento minimo, quasi neppure percepibile. Quello che Aballí fa è semplicente l’atto di rimarcare questa anomalia, uno scarto che metaforicamente contiene il senso stesso dell’arte, ovvero quello di una devianza. L’arte è devianza perché fa vacillare i nostri sistemi di attesa, le nostre abitudini percettive e culturali, le nostre consolatorie sicurezze. Qui la devianza è praticata con la sapienza della discrezione: la costruzione di un doppio ruotato di 10 gradi rispetto all’originale dà corpo ad uno spazio “tra”, appena visibile ai confini di due bianchi lievemente diversi (l’uno è quello del padiglione l’altro è quello della sua rotazione). In tale spazio “tra” si esercita il gioco delle luci e delle ombre a creare una forma dinamica del vuoto. 

Vien da pensare all’”infrasottile” duchampiano di cui tanto ci ha detto Elio Grazioli. Ovvero a quello stato limite percepibile solo ad uno sguardo secondo, quando un guardare diventa vedere. Più precisamente, sempre ricorrendo alla tassonomia di Grazioli, è un caso di tautologia in cui si consuma una “ripetizione differente”: la costruzione è la medesima, quasi duplicata, ma nella sua ripetizione rivela lo scarto, uno scarto che agisce da movimento tellurico, lieve e intensissimo, del nostro orientamento.

Naturalmente se ci si ferma a guardare e a riguardare. Da questo punto di vista l’”opacità” del lavoro di Aballí costituisce un antidoto o uno spazio di resistenza entro la cultura dell’ipervisione, o della “trasparenza”, propria dell’infosfera contemporanea. Nel contesto di una Biennale pienamente “biennalizzata”, come ormai accade da tempo, Aballí tacendo urla a gran voce invitandoci a fermarci per vedere, nella convinzione che vedere sia pensare e che sia quanto mai necessario restituire all’arte il compito di aiutarci a pensare per farci capaci di nuove visioni.

 


COME LA DI LUI PROFONDA, INFINITA SOLITUDINE

Sidsel Meineche Hansen, Maintenancer and Untitled (Sex Robot)

di ANDREA CONTIN 

 

 

“È molto tardi. Ancora alzata? Permettete?” Lui le leva il bicchiere di mano, lo posa, lei si alza, comincia a danzare, rigida, cigolando al suono del carillon. Lui la osserva compiaciuto, sornione, con un inchino la invita a danzare. Lei, ticchettando, accetta.

Danzano, lui la abbraccia, da dietro, le carezza le mani, il volto. Lei ogni volta scatta, come restia. Danzano, piano, col suono ipnotico del carillon che ripete la sua melodia all’infinito, pedante. Lui la solleva, piano, la stende sul letto, lei scricchiolando lascia fare, lui comincia, piano, a spogliarsi.

“Gli occhi di chi io parlai ‘si caldamente, e le braccia e le mani, il delicato collo, il dolce viso che m’avea ‘si da me stesso diviso e fatto singolar dall’altre gente, le crespe chiome d’or puro lucente, e il lampeggiar dell’angelico riso che solean far in terra un paradiso… 

Io spero che vogliate scusarmi, signora, per queste mie libertà 

(la bacia) 

ma desidero tanto vedere come siete al naturale… 

(Le scosta i vestiti) 

Non protestate?” 

“Quale pazzo inventore fu vostro padre, pazzo di certo, ma poeta, perché vi fece così bella. Vi ha posseduto, l’incestuoso, eh? Mi ecciti, col tuo segreto silenzio. 

(Comincia ad ansimare)

Giacerai con me? Porgerai il tuo delicato meccanismo alla mia voluttà? Ah, si? (Ansimando, baciandola) 

Sei bella, sai? Non rifiutarti… 

(Le si stende accanto) 

Qual è il tuo nome?”. 

Lei si gira di scatto con un suono di carillon, che lui decifra, mellifluo: 

“Ah, Rosalba? No, non Rosalba! Amore, ti chiami! Amore! Amore! 

(La gira e la stende sopra di sé) 

È questo il tuo nome”… 

(Se la siede sopra e la muove a ritmo, come penetrandola) 

Lo sai? 

(L’ansimare di lui cresce ritmicamente, lei ha braccia aperte e sguardo fisso, impassibile) Io ti cerco da sempre ti ho… Bella, bambina, mama, puta, pua, pua… 

(L’ansimare diventa orgasmo) 

oh mia bella, ah, piano, ah, piano, ah, dammi, dammi, l’amore, dov’è, l’amore, dammi, l’amore…

(Geme, crolla, piano. La abbraccia, la stringe. Sospira. La sposta al suo fianco).

Lei, liberata, solleva una gamba a squadra, di scatto, come per un meccanismo che salta, poi rimane, immobile. Lui si siede sul letto, piano, si alza, lo sguardo al vuoto, lui anche, vuoto. Si riveste, piano, si incipria allo specchio, si aggiusta l’acconciatura. Con rapido gesto virile veste il mantello, tentenna un istante al suo capezzale e se ne va. Lasciandola sola, stesa, dinoccolata, con le braccia alte e aperte, come le gambe, con il sesso, fessura meccanica, in bella vista, inesistente, immobile: come la di lui profonda, infinita solitudine.