STRABISMI 5

numero dedicato all'opera "Autoritratto in negativo" 1968, Alighieri & Boetti


In questo numero contributi di: Ilona Barbuti, Francesco Carone, Ermanno Cristini, Pietro Gaglianò,

Giulio Lacchini, Francesca Lucioni, Alberto Mugnaini, Luca Pancrazzi, Luca Scarabelli.


 

ASPETTARE CHE IL FIUME SCORRA

L'opera scomparsa vive del proprio mito

di LUCA SCARABELLI

 

Per fare un autoritratto in negativo occorre metterci la faccia e incontrare la propria ombra, l’oscurità della materia, nasconderla e farne perdere le tracce. Parafrasando Rosenberg, occorre s-definire l’io. Quindi aspettare che il fiume scorra, al massimo spostare qualche ciottolo qui e là per vedere cosa succede. Boetti era un esperto nel misurare la relazione tra l’arte e l’artista, tra l’artista e il mondo, nel produrre autoritratti sotto diverse forme e pensieri. Autoritratti a parole e autoritratti “acheiropoietici”, autoritratti s-doppiati e autoritratti millimetrati che scorrono sempre sul linguaggio. Sempre mettendoci la testa e mai le proprie mani. Oggi si dice che l’opera a cui è dedicato questo numero di Strabismi è scomparsa, o meglio ancora svanita, e non è un male, perché vive di un racconto, mediale e orale, che diventa la possibilità di una costruzione mitologica sulla prova del suo volto scavato nella pietra con lo sguardo disvelante, inverso, perso nel profondo, bloccato e solidificato, come se avesse incontrato, in quel buio tutto personale, uno spazio di non-vuoto in cui inglobare il tempo e la datità dell’io. Una forza primaria quasi cultuale, forse l’anti-icona di Medusa. 

 


UN ATTO POLITICO

La negazione volontaria dell'immagine come atto di resistenza

di PIETRO GAGLIANÒ

 

In una società come quella attuale, caratterizzata dall’ossessione per il visibile, da visioni autorizzate, dalla duplicazione compulsiva e dalla memoria brevissima, nascondere un’immagine è un atto politico. L’accesso individuale alla sfera del visibile (e al suo consumo), e ancor di più la capacità del visibile di infiltrarsi in tutte le pieghe della vita individuale e collettiva, ramificandosi attraverso soggettività e spazi di relazione fisici e virtuali, cementano l’assuefazione alla normalizzazione dell’immaginario. Pensieri e visioni mentali e intellettuali si adattano a immagini e forme di immediata disponibilità, atrofizzando così la capacità immaginativa dell’intelletto. È come se la moltiplicazione delle immagini irrigidisse il lessico del visibile, esattamente come la Newspeak di George Orwell puntava a fare con il linguaggio verbale, eliminando “ogni pensiero eretico […] almeno per quanto riguarda quelle forme speculative che dipendono dalle parole” (1984, Mondadori, Milano 2000, p. 307). Le forme del controllo egemonico, a tutti i livelli, hanno sempre sfruttato la profonda reciprocità tra i due domini linguistici, influenzando la lingua attraverso modelli visivi e strutturando questi ultimi attraverso le parole. Ecco perché la negazione volontaria (sia pure temporanea) dell’immagine implica una forma di resistenza: perché impone un esercizio creativo di figurazione su come sia il presente, come fosse il passato, e soprattutto come potrebbe essere il futuro, elaborando pensieri inediti che resistono al dominio del visibile. L’immaginazione coincide con la resistenza.


NASCONDERE È MOSTRARE

Tre leggi del nascondimento dell'opera

di FRANCESCO CARONE

 

I Legge del nascondimento dell’opera

enunciato: Per un’opera pensata per esser nascosta, restare nascosta è la sua condizione naturale e obbligata per continuare ad esser se stessa;

Se è vero che in arte le idee e i pensieri si estrinsecano in forme, immagini e situazioni, prendiamo qui per assoluta l’idea che il valore di un’opera sia misurabile correttamente solo nel caso in cui la sua condizione formale e concettuale risulti completa e tale che, nel caso in cui viceversa quest’opera venisse a perdere o variare anche una minima parte di se stessa – modificando quindi le sue caratteristiche di rappresentazione e le sue condizioni iniziali di proporzione, rapporto ed equilibrio nonché i suoi principi e assunti di partenza – non potrebbe più aderire all’idea primigenia del suo creatore. In questa sua forma incompleta, l’opera non potrebbe più esser esser letta nella sua esattezza, tanto da diventare (o ritornare ad essere) solamente un oggetto o addirittura nient’altro che materia; non più opera.

Da questo è facile arrivare a immaginare le implicazioni di questo concetto applicato nei casi di opere pensate per esser nascoste e che troviamo espresse nella: 

 

II Legge del nascondimento dell’opera 

enunciato: Nascondere e poi dichiarare a voce o per iscritto di aver nascosto la propria opera mina l’integrità dell’opera stessa che, per continuare ad esser tale, dovrebbe rimanere nascosta e quindi ‘non trovata’ (o mai trovata);

È noto a tutti che una qualsiasi cosa, per continuare ad esser nascosta, non debba essere trovata.

Capite quindi quanto sia errato indicare l’opera nascosta come tale – nascosta cioè – in descrizioni, racconti o didascalie. Mostrare la documentazione del nascondimento o, ancor peggio, suggerire o indicare dove guardare per scoprire il nascosto e il nascondiglio sarebbe come non difendere la propria scelta; come non credere realmente al proprio gesto e quindi fino in fondo alla propria opera. Immaginate il caso in cui uno scultore avesse, con fatica e dedizione, levigato finemente un blocco di marmo fino al raggiungimento della forma immaginata e poi, senza seguire alcun concetto giustificante, la colpisse con un martello e dopo pretendesse che la si continuasse a percepire come prima di esser spaccata. Sarebbe quantomeno preso per pazzo! Così facendo dimostrerebbe di non aver proprio capito la sua stessa opera e soprattutto sarebbe come non avesse compreso quello che ci viene espresso nella: 

 

III Legge del nascondimento dell’opera 

enunciato: Nascondere altro non è che un modo alternativo di mostrare. 

 


IL GUFO BIPEDE

In solitudine lo sciamano inventa le regole nel gioco del tempo

di Ilona Barbuti

 

Scava ombre che gli afferrano il volto e poi seguono il corso del fiume che si lascia attraversare a piedi, controcorrente, finché non sentono parlare un’altra lingua. Le dita sporche di inchiostro pensano ai mille nomi ricamati, alle possibilità, le montagne e le sagome degli animali di un paesaggio familiare, al gufo bipede. Compare tra i sassi del fiume gelato, al sole in mezzo al deserto nell’ovest dell’Afghanistan, in una forma invisibile, miraggio da appendere alla parete accanto alla sua esatta copia. L’opera nascosta viaggia al seguito del suo creatore che percorre l’Europa e l’Oriente per spiegare la vita, rimane ferma e si lascia manipolare, immortalare. È materia che è possibile prelevare e impacchettare con una corda sottile, nascondere alla vista e poi distruggere: L’enigma finirà ancorato a quei sassi in negativo, non per affondare ma galleggiare con cura. 

Boetti in carne e pietra nel 1968 è lo stupore, il residuo irrazionale che animano la pietra contrapposto all’impassibilità e fissità impressi sul volto dell’artista, in uno scambio di energie e attributi reciproci; è però in solitudine, quando si separa dal mondo, nel momento in cui il nostro sguardo ne ricerca la presenza, che lo sciamano inventa le regole nel gioco del tempo. È quando nasconde se stesso immergendosi nella natura delle cose che ne rivela le potenzialità, le possibilità celate, quello che ancora non conosciamo. Raggiunge il fiume e ci spiega le strategie per percorrerlo, lo riproduce in una mostra alla Galleria De Nieubourg, corpo naturale all’interno di uno artificiale, che ci sfugge di continuo, che mantiene una sua segretezza. Allora solo sforzandosi di ricordare si può essere colti di sorpresa: “[…] lo stupore vero è fatto di memoria, non di novità”, scrive Pavese nell’agosto del ’42, e per Boetti è proprio il tempo decantato quello che conferisce valore all’azione dell’uomo. In mezzo vi sono le relazioni, i collegamenti, i fili tesi da uno spazio all’altro, i sogni, la vita, quello che non vediamo ma che in alcuni casi ci viene rivelato, come il risveglio improvviso dei sonnambuli. Il tondo della testa e la geometria perfetta del cubo sono entrambi necessari per svelare un gioco bellissimo, ricreare il giardino segreto, restituire a ciascuno il potere di vedere, infinitamente più divertente delle vecchie regole, della realtà. Chiude gli occhi perché non gli servono più. 


IL PARADOSSO DEL ROSPO

Bisogna chiudere gli occhi per vedere

di ERMANNO CRITINI

 

Il potere del rospo deriva in gran parte dalla sua capacità di mimetizzarsi, che lo fa nascondere facilmente tra i sassi. Come tutte le cose che non si offrono a una presa immediata dello sguardo, esso evoca sapori di segreti e di magie; sposta l’asse del senso moltiplicando gli irradiamenti in una prospettiva immaginifica. 

Tanto nella tradizione orientale che in quella occidentale il valore simbolico del rospo è direttamente proporzionale al suo valore mimetico. Ovvero: meno si vede, più c’è e c’è addirittura caricandosi di attributi propiziatori, taumaturgici o sciamanici.

Shaman-Showman, così titolava Boetti uno dei suoi primi lavori del ’68, in cui iniziava a comparire la mimesi dell’identità proiettata nel suo doppio. Forse Boetti intuiva che l’artista non può sfuggire a un destino di alchimie e di sciamanesimo. Perché è portatore di un sentire dilatato. Non solo in quanto sente “di più” ma soprattutto in quanto sente “non qui”. Attraversando il senso comune lo scuote, guidato solo dall’attitudine del rabdomante.

E non c’è “magia” che non presupponga una dimensione segreta, nascosta. Il mistero ha bisogno di discrezione. Forse è per questo che alcune tappe fondamentali della storia dell’arte, soprattutto di quella contemporanea, sono segnate da opere che percorrono il “paradosso del rospo”. A cominciare da quell’orinatoio – opera magistralmente mimetizzata tra gli oggetti fuori dagli oggetti – che nel 1913 “c’era”, mascherato dietro una parete divisoria; poi “invisibile” in forma di riproduzione fotografica su The Blind Man tre anni dopo, e di nuovo “invisibile” presente in forma di replica cinquant’anni dopo da Sidney Janis sempre a New York. The Blind Man: bisogna chiudere gli occhi per vedere, perché quello che si vede non è quello che c’è da vedere.

Disperso tra i sassi di fiume della Galleria di Franco Toselli, nel 1968, aleggiava la stessa inquieta consapevolezza nel sottrarsi mimetico di Autoritratto in negativo. Certamente Alighiero e Boetti pensavano, con Borges, “Ma non è buia la cantina?” (…) Se tutti i luoghi della terra si trovano nell’Aleph, vi si troveranno tutti i lumi, tutte le lampade, tutte le sorgenti di luce”.

È giusto che non ci siano immagini fotografiche di quella mostra.


UNA MASCHERA DEL VUOTO

Il volto come mancamento della materia

di ALBERTO MUGNAINI

 

 

Il calco in negativo di un volto ci richiama alla mente una materia molle, una pasta che si adegua e si plasma sui connotati della faccia. L’autoritratto di Alighiero Boetti, impresso in una pietra vagamente ovoidale come un sasso di fiume, presuppone invece uno scavo e una resistenza, evocando però non tanto l’azione scheggiante dello scalpello quanto la lentezza geologica dell’acqua che erode la pietra, o del vento che nel corso dei millenni ne liscia e ne rimodella la superficie. 

Il volto è un mancamento della materia, una risonanza d’umanità nella sfera della natura inorganica, un paradossale affacciarsi nel cuore della durezza: memoria di una forma svanita, impronta di un tempo irrecuperabile, è come un lento affondare dell’attimo nel grembo della durata. Scandito dalla pietra, il tempo della vita umana si ritrae nella sua dimensione d’impermanenza. Più che a un ritratto, ci troviamo qui di fronte a un’impenetrabile maschera del vuoto.


ESIBIRE PER CELARE

Quando il pappagallo vola via

di FRANCESCA LUCIONI

 

Occupandomi di allestimenti di mostre e studiandone la loro evoluzione mi sono ritrovata a riflettere sempre più spesso sul “caricamento” di significati che un lavoro artistico assume durante il momento espositivo e di come alcune opere possano innescare interrogativi in relazione a determinate installazioni o ambienti. 

Scrivo questa premessa poiché, per motivi di studio, ho ricercato articoli e fotografie inerenti la mostra Shaman/Showman, alla Galleria de Nieubourg di Milano, diventata poi Toselli. Qui Alighiero Boetti fece depositare una enorme quantità di pietre di fiume e disseminate in questo ambiente si trovavano le opere. Una in particolare, “Autoritratto in negativo”, realizzava una totale mimetizzazione con l’ambiente, pietra fra le pietre. Il nascondimento dunque avveniva attraverso la pratica del montaggio. In effetti Autoritratto in negativo, esibita in una galleria asettica o in un contesto museale, non avrebbe innescato così tanti quesiti a livello linguistico e prodotto una tale fascinazione.

Rimanendo sempre nell’ambito degli allestimenti espositivi, nel giugno del 2005 sono stata protagonista di una vicenda piuttosto significativa. Curiosa di visitare Santa Fe, mostra personale di Jannis Kounellis presso l’Isola Madre sul Lago Maggiore, mi sono resa conto, osservando il comportamento degli stessi visitatori, di quanto i lavori potessero risultare nascosti, non solo a livello fisico ma soprattutto concettuale. Essi, infatti, realizzavano una piena simbiosi con il contesto naturale. Il contenitore dei lavori di Kounellis, il grande parco botanico dell’isola, appariva un tutt’uno con le opere stesse. Quali pensieri scaturivano nell’osservatore vedendo cactus e pappagalli vivi all’interno di tale luogo? Ancora oggi mi ritrovo a meditare su questo interrogativo. Ironia della sorte, nel momento in cui varcai la soglia della serra, il pappagallo volò via.