STRABISMI 6

numero dedicato alle opere incontrate alla 57ª Biennale d'Arte di Venezia Viva Arte Viva


In questo numero contributi di: Lisa Andreani, Ermanno Cristini, Michela Eremita, Serena Fineschi, Matteo Innocenti, lookaroundart (Barbara Carnelia e Matilde Marzotto Caotorta), Ilaria Mariotti, Valentina Petter, Luca Scarabelli, Ivana Spinelli.


GLI EROI INCONSAPEVOLI DI ANNE IMHOF

Faust

di VALENTINA PETTER

 

Nell'opera Faust di Anne Imhof, l’uomo vede rappresentate le paure che lo attanagliano e le più intime contraddizioni, proprie e della realtà dalla quale, senza scampo, è inglobato.

Gli inquietanti personaggi umani – che sussistono all'interno e all'esterno dello spazio del padiglione della Germania – come neofiti eroi tragici, si trovano a fronteggiare una colpevolezza necessaria, alla quale non provano a ribellarsi e per la quale saranno puniti, senza speranza alcuna di un riconoscimento di merito o di una salvezza…

Nell'inconsapevolezza di non avere scampo ma nella consapevolezza di essere soltanto simulacra, le presenze umane subiscono il potere e l'effetto delle costrizioni fisiche, sociali ed economiche della realtà che li circonda. È in queste forze – irresistibili irrazionali e necessarie – che si devono ricercare le motivazioni contingenti, che portano questi rappresentati dell'umanità a compiere azioni di ogni genere, sia innocue che tracotanti. Gli uomini e le donne messe in scena da Imhof sono “agenti” di forze che li trascendono e che, inevitabilmente, modificano il loro rapporto con la realtà asettica e alienante, fatta di acciaio e cristallo. 

Questo ambiente – duro e opaco come l'acciaio, e fragile e trasparente come il cristallo – non è soltanto la rappresentazione dell'universo entro il quale  i personaggi sono costretti a vivere, ma è soprattutto la proiezione della profondità delle loro anime, insensibili e congelate, di eroi tragici inconsapevoli. Il tragico – come categoria estetica atemporale – cerca di rivelarsi da una parte nell'evocazione di forze inarrestabili che governano le azioni e gli avvenimenti umani, e che determinano l'ordine universale della realtà; dall'altra, in un'umanità inconsapevole, ma che ha forse ancora la possibilità di ammettere che, a causa della propria natura intrinseca di “agenti”, non può vincere sulla materia del proprio corpo e della propria mente.


PER UN GIORNO O PER SEMPRE.

PER I VIVI E PER I MORTI.

Maria Lai. Legarsi alla montagna

di SERENA FINESCHI

 

Il 16 aprile 2013 a Cardedu (Sardegna) muore Maria Lai. Aveva 93 anni.

Una donna semplice, operosa, indipendente, ostinata, schiva (e non schiava) della mondanità. Ci lascia una montagna e il museo di arte contemporanea La stazione dell’arte di Ulassai, a lei dedicato.

Legarsi alla montagna (1981), è il lavoro di Maria Lai presente alla 57esima Biennale d’Arte di Venezia nel padiglione Spazio Comune. Una documentazione video e fotografica punteggiata di un’opera che durò un giorno, che coinvolse i cittadini di Ulassai, paese arroccato sui monti della Sardegna, terra di forze naturali, di vita, di morte e luogo di nascita dell’artista. Doveva essere un monumento ai caduti ma, contravvenendo alle richieste della committenza, Maria Lai realizzò un’opera per i vivi. Forse non è importante parlare di questo lavoro nei termini in cui ci si aspetti; quel che mi riguarda, è riflettere sul senso dell’opera inteso come veicolo di umanità. Parlare del lavoro di un artista deceduto potrebbe apparire più semplice, non esiste alcun contraddittorio, nessuna possibilità di confronto ma -per quel che penso- i morti sono sempre più confortevoli rispetto ad una scena artistica contemporanea così ferocemente perbenista, servile, individualista, melensa e noiosa, come quella che stiamo attraversando. E non avremo certezza di varcarla sino a quando non torneremo a riconsiderare l’humanitas come atteggiamento essenziale per la nostra sopravvivenza di artisti e di esseri umani. L'umanità è un poderoso combinato di solidarietà, compassione, comprensione, cura e condivisione.

Lo sappiamo, gli artisti sono soli, soli con se stessi e con la loro opera e non vi è nessuno che li possa salvare da questo rapporto incestuoso. L’opera esiste davanti ai nostri occhi e nulla ci chiede, soltanto di essere aggiunta in bilico tra le cose esistenti del mondo ma si manifesta nella sua interezza, solo dopo uno sguardo ‘altro’. Sorgenti propaganti, legate indissolubilmente per un giorno o per sempre. 

Legarsi alla montagna di Maria Lai, è un lavoro che racchiude la necessità dell’artista di ritrovare un senso comunitario della memoria storica e collettiva, di legare passato e presente, di riflettere fortemente sul futuro e sulle nuove possibilità di un modello di vita insieme. Soprattutto, concentra il suo vigore espressivo sui legami collettivi, sull’importanza di ritrovare nuovi codici e stabilire rinnovati, inconsueti dialoghi e connessioni. Tra gli artisti. Tra gli esseri umani.  

Che qualcuno, di grazia e di sapere, torni a creare movimenti che disperdano questi miseri e patetici personalismi. 


NATURA/CULTURA, UNA DRAMMATURGIA NATURALE

VAjiko Chachkhiani

di LUCA SCARABELLI

 

Quando l’interno non è poi tanto diverso dall’esterno.

Avvicinandosi all’opera il fruscio e il rumore si fanno sempre più forti, ma ancora non si sa cosa sia. Occorre proprio accostarsi alla casa – una capanna di legno bella squadrata, con tantissime finestre, molto strutturata, rialzata da terra da sostegni di pietra – e gettare lo sguardo dentro, ed ecco che allora si trova l’acqua. L’acqua che, come pioggia, scende dentro la casa. Di per sé l’aspetto è molto strano, perturbante e inquietante (ci sono dei tubi di irrigazione sul soffitto ma ce li dimentichiamo), così come è estraniante il titolo del lavoro Living dog among dead lions. La visione è quella di un’esperienza nuova, a meno di non essere stati partecipi in passato di una alluvione o di un imprevisto allagamento dei propri spazi quotidiani d’abitazione (io personalmente un allagamento simile l’ho vissuto nel mio studio, un bell’acquazzone domestico sceso dal soffitto per via dell’incuria del vicino). Il titolo enigmatico che sembrerebbe derivare da un modo di dire georgiano – il paese d’origine dell’artista Vajiko Chachkhiani (Tbilisi, 1985, oggi berlinese) autore dell’opera – in realtà è un'espressione colta dall’ecclesiaste, in cui si parla di persone feroci come bestie e di persone semplici e mansuete e della loro fine antitetica.

La casa – completa di mobili quadri suppellettili varie stoviglie e altri oggetti quotidiani, che denotano una vita semplice e frugale – arriva dalle campagne della Georgia, viene presentata, per i sei mesi della mostra, sotto la pioggia o meglio con dentro la pioggia, innaffiata tutta e costantemente. Si sente una sorta di angoscia del vivere, ma anche del morire, è magica e paradossale allo stesso tempo, infantile come una fiaba che nasconde però profonde verità. È un’opera sul tempo e l’apparenza, sul senso della difficoltà, sulla possibilità di affrontare una vita molto dura in quelle terre, anche dentro e fuori di sé. Un sé che è anche collettivo, un unico che è un molti.

Il processo del lavoro si fa presente, perché a un certo punto la materia – così impregnata, umida, fradicia d’acqua – comincia a soffrire e le cose, poco alla volta, cominciano a cambiare da quello che erano in origine fino a deteriorarsi, rompersi, danneggiarsi irreparabilmente. La casa, nel suo rapporto con la natura e con il tempo, ma anche di guerra e di trauma, si potrebbe considerare un relitto di un’economia di povertà e sussistenza; una testimonianza sociale di un vissuto che si sente difficile, complicato, nel rapporto non solo con con gli elementi naturali, ma anche con le condizioni storiche. È qui che la rovina accade.

L’artista parla giustamente di drammaturgia naturale, questa è un'intrigante e potente messa in scena del rapporto natura/cultura, sottolineata in parte anche da una luce gialla, fioca e tremolante, che illumina le stanze, rendendo il tutto molto “filmico”. Sfiorando le pareti, allungando lo sguardo alla ricerca di dettagli nell'interno sempre più fradicio, si sente scaturire dentro se stessi una sorta di temporale, accompagnato dal profumo di un luogo nel quale anche il silenzio è bagnato dalla storia.

Chissà quale storia, quale emotività, abbiano vissuto la casa – prima di essere stata smontata e ricostruita a Venezia – e le persone che l’abitavano, le loro questioni esistenziali non molto lontane da quelle evocate da questa presentazione sicuramente di grande forza simbolica. È una rappresentazione molto teatrale, surreale, una messa in scena di un momento e di un tempo particolare, che mi fa pensare al sublime – con un sottofondo alla Tarkovsky e qualche parola di una poesia sconosciuta appena sussurrata – come un cane vivo in mezzo ai leoni morti: un popolo che si riprende la sua storia dopo secoli di incursioni, invasioni, transizioni. Una casa come metafora del riscatto degli ultimi? O più semplicemente una favola che deve per forza finire bene?

Nella casa non si può entrare, oltre che bagnarsi si rischierebbe di non essere più spettatori, perdendo l'importanza della distanza e dello scarto dello sguardo, perché non si tratta di una performance o di sculture viventi (come in altri lavori di Chachkhiani), e nemmeno è arte relazionale, ma di una storia vera, vissuta, solo spostata di un po’ nel linguaggio, in cui il corpo dello spettatore è già iscritto come testimone.


LA STORIA DI ZEIN RACCONTATA DA MOATAZ NASR

The mountain

di ILARIA MARIOTTI

 

Ho lavorato con Moataz Nasr nel corso del 2012 e 2013 e in quel periodo ho condiviso alcune tappe importanti della sua vita di uomo, di artista, di attivista. Importanti perché la storia dell’Egitto e della Primavera araba in quel lasso di tempo è stata attraversata da grandi euforie e enormi delusioni. Un’alternanza ondivaga di speranza e disillusione, energia vitale e rabbia e ripiegamenti ha permeato di sé quel lungo periodo. 

Invitato a rappresentare l’Egitto nella scorsa edizione della Biennale di Venezia Nasr ha presentato un lavoro non scontato, fuori dalle ricerche su materiali e tradizioni a cui ci ha abituato la storia espositiva di quel padiglione (con alcune eccezioni), ben fatto da un punto di vista della compagine estetica, significativo riguardo ai contenuti. Che non potevano essere che un’esortazione dove Storia, Politica e Poetica si incontrano costruendo un dispositivo importante per la lettura di un nostro complesso presente in cui la voce dell’artista costituisce un preciso appello alle coscienze internazionali. The Mountain parla della paura che affossa qualsiasi aspirazione al cambiamento - elemento di vita e condizione essenziale nella poetica dell’artista: la paura degli altri, della superstizione, delle reticenze, delle vendette. La paura di perdere i propri privilegi, la tranquillità, la libertà, la vita. E parla della superstizione e dei meccanismi di ricatto che inchiodano le persone in una condizione di immobilismo e, dunque, di debolezza.

Moataz Nasr ha trasformato il Padiglione Egitto in un luogo accogliente e fuori dal tempo, un’architettura profumata di paglia e terra e vestita di fango che si apriva come un grande grembo. In questo alveo cinque video sincronizzati proiettati su altrettanti schermi raccontavano una storia: quella di Zein bambina che vuole andare a studiare, via dal suo piccolo villaggio egiziano in cui gli uomini sono paralizzati da presenze misteriose e sinistre che abitano la montagna e che condizionano le loro vite. Zein non si rassegna: per raggiungere il suo obiettivo si finge maschio con la complicità della madre. In quel villaggio trafitto dalle medesime paure Zein torna poi da adulta, pronta ad affrontare la montagna misteriosa e le superstizioni dei suoi abitanti: prima però fronteggia gli uomini, i saggi deboli e sottomessi e gli esorta a sfidare i loro demoni e scalare la montagna. Zein andrà là da sola, armata di un bastone con cui trafigge il terreno. Tramortita da una forza misteriosa Zein si riversa al suolo: il villaggio che finalmente trova i coraggio di uscire di casa e accorre la trova così: morta o viva? si chiedono (e ci chiediamo). 

Molte opere di Moataz Nasr riguardano la voce e la parola: esse danno voce ai deboli, riportano le parole delle piazze, le grida della rivolta, le parole dell’orgoglio (le varie edizioni di The Maze), costituiscono i testi di un racconto privato (Father and Son, 2004), si configurano come esortazioni ad essere comunità forte per affrontare le forti ragioni della Storia. Zein è una bambina e poi una donna. Le donne hanno un ruolo importante nei lavori di Moataz Nasr: nel video The Echo (2003) era una donna ad appellare gli uomini deboli, pilastri incerti di una comunità sconfitta.

Anche a noi che ascoltiamo e guardiamo scorrere sugli schermi la storia di Zein si chiede un atto tutto personale: concludere il racconto secondo il nostro temperamento. Non esiste un finale ma ne esistono moltissimi. Siamo usciti dal Padiglione accompagnati da parole e pensieri. Il pretesto del “non finito” ci ha indotto a confrontarci con altri visitatori. Parole che portano parole. Un bisbiglio che cresce. La voce di Zein (la voce di Moataz Nasr narratore) sembrava uscire dal Padiglione, andarsene per i Giardini. Io l’ho portata a casa.


PUTTING THINGS TOGHETER

Charles Atlas, The tyranny of consciousness

di MATTEO INNOCENTI

 

Con sensitiva intuizione la coreografa argentina Cecilia Bengolea ne dichiarava lo stile “an arbitray way of putting things together almost like subconscious”. Charles Atlas negli anni non ha descritto un percorso a traiettoria unica, documentatore, filmaker, video artist, coreografo a sua volta; ha però avuto un'orbita: intorno alla danza, in varie occasioni tangente a Merce Cunningham.

In The Tiranny of Consciousness, peraltro premiato con menzione speciale, ci si imbatte come in una sorpresa. Qualcosa che dapprima ci attira, probabilmente le dimensioni rilevanti e lo stare in una zona di passaggio obbligato dell'Arsenale, poi ci induce a guardare, ed è una ripresa di ossigeno nel percorso espositivo di una Biennale che intendeva essere libera da schematismi, umanisticamente verso gli artisti, e invece si è mostrata scialba e irrigidita da arbitrarie quanto deboli convenzioni critiche (la faticosissima suddivisione in capitoli: come far uscire l'ego curatoriale dalla porta perché poi rientri dalla finestra).   

Il video Kiss the Day Goodbye divide l'enorme schermo in 44 tramonti, accanto un countdown digitale di 18 minuti che è il tempo in cui il sole si abissa dall'orizzonte, mentre la voce della drag queen americana Lady Bunny pone riflessioni sul presente e sul futuro del pianeta (Here she is...v1): “I don't understand where the greed that is causing the war, I don't understand where the greed that is killing the planet […] It has really become insane and no one is talking about peace. I don't want to live in a world without peace.” E segue il video musicale della stessa You were the one.

Sono la capacità e il gusto di Charles Atlas di combinare cose tanto differenti e, con azzardata poesia, di creare un'opera affascinante e originale; quel processo che spesso muore tra le mani di chi voglia bloccarlo, definirlo, ripeterlo - il processo che è proprio al solo artista - qui sorge dallo splendere di una ricerca personale.

 


QUANDO L'ARCAICO ABITA IL VENTUNESIMO SECOLO

Shimabuku, Oldest and newest tools of human being

di LISA ANDREANI

 

Sareste mai riusciti a credere che l’arcaico e il preistorico avrebbero abitato il ventunesimo secolo? Probabilmente no: impossibile quando il nostro mondo non fa altro che parlare di intelligenza artificiale, robotica e interfacce. Il che rende davvero difficile lo scaturire un pensiero di questo tipo. E se invece l’arcaico fosse più vicino di quanto immaginiamo? In Oldest and Newest Tools of Human Being (2015), Shimabuku, artista di origine giapponese, sembra volerci narrare una leggenda mentre noi, piccoli membri di una tribù ancestrale, ci disponiamo attorno a lui ad ascoltare. “Sempre di fronte a un’immagine, ci troviamo di fronte al tempo” o meglio a plurimi tempi afferma George Didi-Huberman nel suo Storia dell’arte e dell’anacronismo delle immagini. Ora, che un Iphone non si possa considerare solo per il suo mero valore tecnologico lo sappiamo. In fin dei conti i nuovi linguaggi e possibilità di display conducono sempre più verso mezzi quali Instagram e i social media. È infatti dalla semplice analogia formale tra lo smartphone più utilizzato al mondo e una pietra che ricorda una selce che nascono similitudini evocative e quasi chimeriche. Nel video The Snow Monkeys of Texas - Do snow monkeys remember snow mountains? (2016) un gruppo di scimmie trasferite da Kyoto al Texas accerchiano frastornate un cumulo di neve. Il passato reminiscente si mostra ai loro occhi quale presenza incomprensibile. L’epifania di un momento di memoria collettiva si rende visibile grazie alla semplicità di un linguaggio privo di motivi barocchi, ma capace di raccogliere una comunità di sentimenti e bisogni che in questa Biennale 2017 è stata ribadita da questo gesto del riunirsi in cerchio evidente nei lavori di Ernesto Neto, Juan Downey e Adelita Husni-Bey.


E' SOLO LA FINE DEL MONDO

Charles Atlas, The tyranny of consciousness

di LOOKAROUNDART (UN PROGETTO DI BARBARA CARNEGLIA E MATILDE MARZOTTO CAOTORTA)

 

Il sole – magnifico - tramonta quarantaquattro volte al suono delle cornamuse nel mare digitale dell’installazione video multicanale di Charles Atlas, e ogni volta sono 18 minuti di festa cromatica: suntuosi viola, rossi, indaco accompagnano la morte del giorno. Piacevolmente sedotti, ci stiamo preparando al raccoglimento, a una pausa, al silenzio… è impossibile spiegare le preferenze umane, scriveva dal suo Brasile Millor Fernandes, anche se costruiti con materiali assolutamente identici, ed entrambi bellissimi (nessuno può dire quale dei due è più bello), il sole che tramonta ha sempre avuto, ed ha, più pubblico di quello che sorge. Ogni volta la fine del mondo. E poi – improvvisa! – esplode l’esuberanza pop di Lady Bunny, la sua voce coraggiosa che canta la politica la pace, la vita, il pianeta e l’avidità  dei tempi confusi e complessi in cui viviamo… e ci conquista.


LE FORME DELLA VOCE

Karen Attia, Narrative vibration

di IVANA SPINELLI

 

Il cous cous salta, rotola, palpita, creando cerchi, onde, geometrie. E così vedi. Le forme della voce, visualizzi le vibrazioni di un canto che evidentemente ti tocca, ti arriva addosso, sulla pelle e nel petto fino agli organi interni.  Sei parte di qualcosa all’interno dell’agorà tra le voci che ti scuotono come il cous cous, sei tra oriente e occidente, tra uomo e donna, tra visibile e invisibile, tra scienza e poesia. Una scultura visiva e sonora che contempla due corridoi, quindi due luoghi di passaggio, che introducono e salutano l’ agorà che è appunto un luogo di ritrovo, dove noi animali fruitori ci fermiamo assetati di percezione.

Quel “tra” del corridoio, che non ti permette di fermarti, ma induce al movimento, tra le dimostrazioni scientifiche e la danza, tra i libri che a quel punto vorresti subito leggere tutti e i vinili che ascolteresti volentieri.  E invece il corridoio è anche fastidiosamente stretto, guardi e cerchi di carpire più che puoi, di memorizzare, mentre la sensazione che ti resta è proprio di esserci quasi , di essere nel “passaggio a”, di essere nel  “tra”. 


QUANDO LA FRATTURA E' FERITA

Damien Hirst, Tadukheba

di MICHELA EREMITA

 

 

Dove la mancanza dava il permesso

china vicino al confine ascoltavo

udivi un frastuono, la velocità del gesto.

Valeria Manzi

 

“Il pensiero deve riguardare la Biennale di Venezia - e può essere visivo, scritto e/o altro, ma soprattutto deve riguardare un'opera e solo una. L'opera presente in Biennale più impressa nella memoria.” Così mi disse Ermanno (anche se in toni molto meno perentori)quel giorno in Filanda…

Ed io, pur rimanendo in laguna, sono uscita un po' dal seminato e sono arrivata a Palazzo Grassi - dove era esposta la mostra di Damien Hirst. Lì la memoria si impunta.

...

La foto che ho fatto evidenzia un dettaglio di un’opera che ad essere sinceri si, mi ha attratto nella sua interezza ma mi ha letteralmente catturato nel suo frammento mancante. 

Riguardo ai "perché" che ci accostano ad un'opera ... be', sappiamo possono essere tanti. 

In questo caso io lo so, sono rimasta catturata dalla "frattura" del marmo di questa testa di donna - una strana creatura, dalla forma del cranio bombata e levigata, da farci pensare a regni ultraterreni, pianeti lontani, un avatàr. 

Lei era praticamente perfetta, puntava dritto con gli occhi verdi splendenti e malinconici ma… con un'evidente ferita sul volto, rovinati il naso e la bocca. 

Le ferite, a volte fanno abbassare lo sguardo, ma lei no, lo aveva alto, talmente sostenuto… da risultare, per contrapposizione, cieco. 

Eppure sembrava guardarti.

Il mio sguardo si è mosso dagli occhi al resto del volto, la parte dolente e lì sono rimasta, sulla ferita, ricordando le tante ferite. Mie, di altre o altri? non importa. Le ferite. Lo sguardo era magneticamente attratto dall'imperfezione delineata dalla frattura, che così tanto riconduceva alla carne, alla carne bastonata così forte da portare la mano alla bocca con l’intento di avvertire l’integrità o il dolore.

Cara Valeria non scriverò molto più... ora vedo. Mi chiedevo se tu volessi donare tre righe da mettere in finale o all'inizio o lasciare libere sul bianco del fondo, affianco alle fratture.

Magari ne parliamo.

un abbraccio

Michela Eremita


I NUMERI ROVESCIATI DI PIQUEMAL E IL FARE IN MENO

Mladen Stilinovic, Artist at work again 2011-2017

di ERMANNO CRISTINI

 

Leggo nel comunicato stampa conclusivo della 57. Biennale di Venezia i numeri che ricopio meticolosamente:

Oltre 615.000 visitatori (+23% rispetto al 2015), a cui si aggiungono i 23.531 della vernice; 120 artisti invitati alla Mostra; 86 partecipazioni nazionali; 30 partecipazioni nazionali nei padiglioni storici ai Giardini; 23 partecipazioni nazionali all’Arsenale; 33 partecipazioni nazionali nel centro storico di Venezia; 3 nazioni presenti per la prima volta; 3 nazioni che partecipano dopo una lunga assenza; 1 Progetto Speciale; 23 Eventi collaterali; 68 Tavole Aperte, di cui 49 con gli artisti di Viva Arte Viva e 19 con gli artisti delle Partecipazioni Nazionali, per un totale di 87 artisti (63 dalla Mostra e 24 dai Paesi) e 2.100 partecipanti; 64.347 (3.738 gruppi) partecipanti alle attività educational e ai servizi di visite guidate (+ 15% rispetto al 2015); 68 università convenzionate, 3.663 studenti universitari provenienti da tutto il mondo hanno inserito la visita alla Biennale Arte 2017 all’interno del loro percorso formativo; 5.000 giornalisti accreditati in vernice, ripartiti tra

3.400 giornalisti internazionali e 1.600 giornalisti italiani cui si aggiungono giornalisti via via accreditatisi durante i mesi di Mostra; oltre 3.500 articoli compongono la rassegna stampa italiana e straniera ad oggi.

I numeri della biennale disegnano i numeri come destino della Biennale, ineluttabile, embrionalmente contenuto già nella critica all’industria culturale che a partire da Horkheimer e Adorno si proiettava nelle ancor lucide analisi di Edgar Morin e di Jean Baudrillard.

Lì ha origine il “capitalismo artistico” (Lipovetsky/Serroy), dove domina la logica dei numeri ovvero quella produttivistica dell’iperspettacolo che oggi sembra sovraintendere la gestione della “cultura” in genere e in particolare della cultura artistica: unico riscontro “qualitativo” la ricaduta tangibile del gradimento.

In tale scenario Artist at Work Again 2011-2017, di Mladen Stilnovic, assume il senso di uno “spazio di resistenza”, profetico – la prima versione, Artist at Work, è del 1974 –  e improrogabile nella sua radicale attualità. 

L’astensione in quanto rovesciamento inoperoso può essere affermazione della ragione etica sulla ragione produttiva, assumendo un valore rifondativo. Tornano alla mente le parole di Vila Matas “A me Walser ricorda Piquemal, un curioso sprinter, un ciclista degli anni sessanta che era ciclotimico e a volte si dimenticava di finire la gara”. Parole ispirate dall’inazione di Bartleby: “I would prefer not to”, o dalla prospettiva duchampiana di “darsi alla macchia”. 

Resta forse qualcos’altro da fare, oggi e a maggior ragione oggi, che il non fare, o il fare in meno per riscoprire il più che sta nella capacità di ascoltare il nostro respiro?