STRABISMI 4

numero dedicato alla 56ª Biennale d'Arte di Venezia

All the World's future


In questo numero contributi di: Giulia Brivio, Ermanno Cristini, Luca Scarabelli, Giovanni Bai, Riccardo Lisi, Gabriele Tosi, Andrea Lacarpia, Virginia Zanetti.


QUANDO I SUONI

SFUGGONO DALLA MATITA

Sonia Boyce, Exquisite Cacophony

di GIULIA BRIVIO

 

Stttt tt stttt tt go go go sttt sttt tt...

Una lite di coppia, una comizio, uno scontro, una chiacchierata? Nel video le voci dei performer Astronautalis ed Elaine Mitchener si alternano, sono a tratti comprensibili e poi improvvisamente si trasformano in suoni. Sono come i colori di una tavolozza, come pennellate che definiscono linee di forza. Sonia Boyce, pittrice, non dipinge più da vent'anni, ma forse qualche traccia è rimasta. I soggetti sono rimasti, la riflessione sulla figura della donna, della donna nera in una società di bianchi, l'indagine sui generi sessuali.

Davanti al video della performance mi immobilizzo come davanti a un dipinto. È un quadro che riesce a raffigurare l'improvvisazione, i corpi e le voci dialogano in un ritmo perfetto, inaspettato, insolito. Vorrei annotarne le linee con disegni schizzati a matita, analizzarne i chiaroscuro, studiare la composizione dello spazio. I suoni mi sfuggono dalla matita, sono sempre più astratti, il linguaggio è scomposto, immediato, non-sense e raffinatamente cacofonico.

Mmmmh eheeee aaaaahhhh mmmmmmh... Stop. Stop. Stop.


REALE COME REALE, NELL’ARSENALE SEGNI DI CARNEVALE

Adel Abdessemed, Also Sprach Allah

di GABRIELE TOSI

 

El Pelele cioè Il Fantoccio, datato 1791-92, è un’opera di Goya conservata al Prado. Il dipinto è uno degli ultimi cartoni preparati, controvoglia, dall’artista per la regia arazzeria di Santa Barbara. I tessitori reali avrebbero quindi usato tale quadro come modello per realizzare un arazzo da collocare negli uffici di Carlo V all’Escorial. Quattro giovani imbellettate tendono un lenzuolo divertendosi a lanciare in aria un manichino. Goya prese spunto da un gioco popolare in cui il piacere, per chi se lo chiedesse, stava nel ridere per le forme anatomiche demenziali che il pupazzo assumeva nel lancio e nella caduta. Facilmente leggibile come un’allegoria femdom, l’iconografia sarà poi ripresa dal pittore nelle stampe dette Los disparates, dove la premonizione di un temporale d’estate che descrive il cielo di El Pelele si trasforma in buio senza fine e il sogno perverso del fantoccio si trasforma nell’incubo di un adolescente insicuro, alle prese col presentimento della professoressa di scienze della terra che lo interrogherà sui buchi neri. 

Sospensione, dipendenza, fragilità. Per una malattia autoimmune della visione il realismo ha sempre qualcosa di parodico… La realtà, la natura, la scimmia, il Vasari, ancora prima di Goya, che però è fra i consapevoli.

Detto ciò, simulando il cinismo di chi vive oltre gli altri, per tutti e per nessuno, ecco : “Also Sprach Zarathustra”, anzi no: “Also Sprach Allah”.

Adel Abdessemed espone all’Arsenale un lavoro del 2008 che consiste di due pezzi. Già noti al pubblico dalla personale al Pompidou del 2012, Je suis innocent, ma esposti per la prima volta nella personale del 2008 al Common Guild di Glasgow, Trust me. Su un tappeto è tracciata in nero carboncino la frase che dà il titolo all’opera: “Also Sprach Allah”. È scritta, e così ovviamente si legge, da sinistra a destra. Trattandosi di islamismo, la cosa dovrebbe di per sé far riflettere e si tratta, ovviamente, di un pensiero che torna sempre su se stesso. Il video che accompagna l’oggetto, riprodotto in loop, documenta il processo di scrittura. Si vede l’artista lanciato in aria da una gruppo di uomini vestiti di bianco. Il tappeto è fissato al soffitto e, a ogni lancio, l’artista scrive parte della frase. Sembra di esser di fronte a un cerimoniale matrimonialista e indoor, il tutto appare un po’ improvvisato. La ripresa è diretta, di qualità non più che decente e senza troppi fronzoli.  Dovrei menarvela su come il lavoro di Adel Abdessemed, in particolar modo nel decennio scorso, fosse incentrato sul racconto diretto di come la politica si infiltrasse nella vita delle strade, ricerca foriera di non poche controversie che hanno certo contribuito, nel mondo del gossip e del sensazionalismo, a costruire la carriera dell’artista zwirnerino. Torniamo invece al sacrificio apparentemente inutile, non si capisce altrimenti perché uno dovrebbe attaccare un tappetto sul soffitto al fine di scriverci sopra, e al “the ethernal struggle”, oppure, in maniera più sublime, “la guerra santa”. La religione sa ciò che funziona, dal femdom al team-dom, verrebbe da pensare. Il pubblico di Venezia funziona diversamente, dice sempre di essere di un’altra parrocchia, almeno che non passi il fanciullo a raccogliere le offerte, s’intende. La Biennale non è mai abbastanza contemporanea fin quando non lo è troppo e allora è politica, cinica e pessimista. A me la Biennale 2015 è piaciuta, Enwezor ha saputo prendermi per il culo. Fin quando non sono uscito dalla laguna ci ho quasi creduto di vivere in tempo di guerra. Ricordate, a questo proposito, che una delle più grandi maledizioni cinesi recita: “Ti auguro di vivere in tempi interessanti”. Ma Goya e quel birichino di Abdessemed mi avevano avvertito, non puoi capire il mondo, tantomeno Venezia, se non capisci il carnevale. Se non ci arrivi almeno mimetizzati, fai in modo di utilizzare qualcosa di carnevalesco: una maschera andrà più che bene.

Chiedo scusa, per questo, ai teschi di Dumas e al velo di Murillo, senza dimenticare il mediterraneo di Lagomarsino e la genetica di Rosenkranz.  A Steyerl non c’è bisogno di chiedere scusa.


LE PIETRE SOSPESE

Elena Damiani, Rude Rocks

di ANDREA LACARPIA

 

Come gli altri prodotti linguistici, anche le opere d'arte sono oggetti della realtà sociale, ma con peculiarità che le avvicinano, o le fanno somigliare, agli oggetti naturali. Realizzate dall'uomo, le opere d'arte documentano stati d'animo e ragionamenti intellettuali che nascono dalla soggettività dell'artista, mediata da processi linguistici particolarmente stratificati, ma spesso ambiscono alla condizione degli oggetti naturali, o almeno ne ricalcano le forme.

Pigmalione trasformò in carne la materia inerte sulla quale proiettò tutto il proprio desiderio, ma quanto nel corpo costruito da Pigmalione è illusione linguistica e quanto reale vita pulsante?

La natura è l'esempio, la matrice che fornisce il modello, e l'opera ne è il calco, il negativo che racconta il positivo. Il calco è forma senza vita, spettrale phantasmata che appare senza essere, e nello stesso tempo è corpo fisico evidente, visibile e sensuale.

Nell'installazione Rude rocks, la pietra e il metallo, elementi primari che esistono al di là dell'esistenza umana, esibiscono se stessi per significare se stessi, ma non solo. I segni sui marmi documentano la storia del mondo che precede l'uomo, storia segnata da un lento lavorio di agenti atmosferici come da violenti cataclismi, tramite i quali le diverse materie si differenziano ed assumono particolari proprietà formali.

Tuttavia, nell'inquadrarsi in strutture che ne organizzano la visione, la materia assume una diversa valenza, che si apre all'interpretazione attraverso il linguaggio simbolico, su un piano culturale e non solo su quello strettamente geologico.

Come un archivio della memoria personale che diviene memoria collettiva, in Rude rocks una griglia contiene pietre grezze che ricalcano la tipica forma conica delle montagne. In alcune delle piccole montagne di pietra, il vertice è ribaltato verso il basso in modo similare alle tipiche rappresentazioni del subconscio, parte sommersa della personalità che, pur essendo nascosta e rimossa dalla coscienza, determina gran parte della vita umana.

Rispecchiandosi su piani di rame e sospesi sulla struttura geometrica che li contiene e per certi versi razionalizza, i marmi assumono la tipica valenza straniante degli strati più profondi della psiche.

Seppur mediato dai processi culturali del mondo dell'uomo, il paesaggio interiore è speculare alla geologia terrestre, della quale ricalca la complessa sedimentazione. Le pulsioni inconsce sono sublimate nelle forme sociali nello stesso modo in cui la materia grezza è tagliata e levigata per ottenere forme astratte. Come meteoriti che provengono da un’arcadia in cui tutto è piacere illimitato, i marmi di Elena Damiani assumono una valenza estetica piacevolmente attraente, nella quale artificiale e reale confluiscono per restituire insieme la materia concreta e la sua sublimazione più seducente.

 


“[…] IN QUANTO LATTIVITÀ ACCERTATA NON RIENTRA TRA QUELLE DI MOSTRA ESPOSITIVA”

Christoph Büchel, The Mosque

di RICCARDO LISI

 

Nelle fitte giornate di opening della Biennale non trovai purtroppo il tempo di partecipare all'inaugurazione di The Mosque, il progetto realizzato dall'artista svizzero Christoph Büchel come padiglione dell'Islanda, nazione in cui opera da tempo.

Così, approfittando dell'inaugurazione del progetto Silver Lining, padiglione con artisti di piccole nazioni (Liechtenstein, Islanda, Lussemburgo e Montenegro) presso l'Istituto Svizzero, il 24 ottobre son tornato a Venezia e son andato subito nel bel sestiere di Cannaregio a cercare la chiesa sconsacrata della Misericordia, scelta per realizzare un progetto terminato dall'amministrazione municipale veneziana - allora retta da commissario prefettizio - solo tredici giorni dopo l'apertura e precisamente mezz'anno prima della conclusione prevista.

Ho esplorato la zona e scoperto che essa sorge a due passi dalle Fondamenta de' Mori e da un'antica piccola scultura sghemba appunto di un moro, ma anche dal primo Ghetto israelitico del mondo.

Col tempo erano stati rimossi i fogli apposti da un vigile sulla porta della chiesa, paradossalmente il medesimo gesto con cui Martin Lutero mezzo millennio fa si ribellò al papato. Turisti di varie nazioni si aggiravano sperduti alla ricerca del padiglione come Vincent Vega nel noto meme e così interloquii con loro e iniziai una piccola indagine. Giunto via mail alla curatrice Nina Magnúsdóttir, ho ottenuto interessanti risposte ai miei dubbi da curatore. Del resto la chiusura anticipata di un progetto è un timore spesso presente nel nostro lavoro.

Nina ha precisato subito che Büchel parte dall'analisi dei luoghi e del loro background storico e politico. La chiesa sconsacrata scelta era in pratica l'unico luogo apparentemente adatto al progetto - perché già luogo sacro - che fu subito proposto alle comunità islamiche islandese e veneziana. Infatti a Venezia manca un luogo di culto islamico in laguna e, com'è tipico nel suo lavoro, Büchel voleva creare un'opera d'arte che giocasse con i limiti tra arte e realtà e la loro percezione. La comunità islamica locale era all'inizio scettica ma, appena avvenuto il dramma dell'attacco a Charlie Hebdo, decise di aprirsi a questa proposta per permettere ai profani di conoscere dal vivo cosa sia una moschea e cosa vi si pratichi. L'amministrazione comunale mostrò di considerare minaccia alla sicurezza anche solo l'apporre all'esterno un fregio in arabo, ma l'intero progetto non fu gradito dall'inizio. Però artista e curatore sono andati avanti ritenendo che un progetto modificato - e dunque deprivato dalla possibilità per un credente di usare questa installazione d'arte per pregare Allah - avrebbe perso il senso di offrire tale servizio per la prima volta, in una città che attrae tantissime persone dal mondo intero.

All'apertura, oltre ad esponenti delle due comunità islamiche, intervennero pure un pastore protestante e un prete cattolico di idee progressiste. La giovane socia bengalese del ristorantino Oriente, posto subito fuori del Ghetto, mi ha raccontato di svariati immigrati islamici che passavano davanti al locale proprio per andare ai riti officiati.

Ma la maretta montava, soprattutto da parte cattolica e pare anche israelita. Il parroco del quartiere affermò che la chiesa non fosse sconsacrata, realtà smentita dalla bolla emessa da Albino Luciani nel '73, allora vescovo di Venezia.

Magnúsdóttir afferma che molti li avevano avvertiti della difficoltà di realizzare The Mosque nel panorama politico veneziano, ma - cito - “art can sometimes enable things to happen that are otherwise impossible”.

Ho trovato modo di parlarne poi col caro amico Jacopo Jarach, della valida galleria omonima, già abitante in quel quartiere e appartenente alla comunità israelitica. Dopo aver segnalato che si tratta di un quartiere popolare e non razzista, ma capace di accettare per esempio la presenza ebrea, Jacopo solleva un dubbio: che si sia percepita solo la provocazione e non la proposta insita nel progetto? E prima ancora: che una certa asettica autoreferenzialità – rischio immanente nella pratica artistica contemporanea - abbia bloccato sul nascere la possibilità da parte del pubblico profano di accettare un progetto altrimenti intenso, preciso ed attuale?

Sicuramente rimane il paradosso che possa essere un funzionario al controllo delle attività commerciali cittadine a decidere “quali attività rientrino in una Mostra” - con la solita maiuscola, già segno di un approccio ahimè obsoleto. E che ciò sia avvenuto senza che la Biennale di Venezia tentasse di difendere un concetto artistico effettivo.


GOOGLE CAPITAL

Isaac Julien, Das Kapital

di ERMANNO CRISTINI

 

"La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci e la merce singola si presenta come sua forma elementare”

 

“De rijkdom van de samenlevingen waarin de kapitalistische productiewijze heerst presenteert zich als een immense opeenhoping van grondstoffen en individuele grondstoffen verschijnt als haar elementaire vorm”

 

“A riqueza das sociedades em que o modo capitalista de produção prevalece se apresenta como uma imensa acumulação de mercadorias e commodities indivíduo aparece como sua forma elementar"

 

“U ricchizza di li sucitati in cui lu càlculu capitalisti di prevails pruduzzione stessa prisenta cum'è un tesoru di sperienze individuale prudutti è Indian appari comu a so forma elementari”

 

“The society in which the capitalist mode production itself is dominated by the individual wealth accumulation products and commodity wealth appears as its elementary form”

 

“La société dans laquelle la production du mode capitaliste lui-même est dominé par l'individu des produits d'accumulation de richesse et produit la richesse apparaît comme sa forme élémentaire”

 

“A társadalom, amelyben a kapitalista termelési mód maga uralja az egyént vagyonosodási termékek és termék gazdagság jelenik meg elementáris forma”

 

“Tha an comann-sòisealta calpachais anns a bheil am modh riochdachadh fhèin air an ceannasachadh le fa leth beairteas cruinneachadh stuthan agus a 'bheairteas de stuthan air an taisbeanadh eileamaideach cruth”

 

“Anthu ake capitalist akafuna kupanga wokha kulamulidwa ndi munthu yosonkhanitsa chuma ndi chuma cha chuma pa elemental anasonyeza mtundu”

 

“Abantu mode isicebi zokukhiqiza ngokwayo ilawulwa iqoqo kwemithombo kanye nengcebo yezinto ezibonakalayo on the zokucathula wabonisa isizwe”

 

“Seda kontrollib kogumise peamiseks allikaks materiaalne rikkus ja näitas rahva kapitalistlik tootmisviis”

 

“Es steuert die Sammlung von Primärquellen Reichtum und zeigte Menschen, die kapitalistische Produktionsweise”

 

“Esso controlla la raccolta di ricchezza fonti primarie e ha mostrato alla gente la modo di produzione capitalistico”


UN OBIETTIVO COME

MISURA DI GIUSTIZIA

Paz Errázuriz, Poetiche della dissidenza

di LUCA SCARABELLI

 

La fotografa Paz Errázuriz - ospitata assieme alla videoartista Lotty Rosenfeld nel progetto espositivo Poetiche della dissidenza, pensato dalla curatrice Nelly Richard per il Padiglione del Cile - è l’artista a cui dedico questa lettura d’opera. Il suo sguardo e il suo pensiero attingono alle manifestazioni d’interesse per la democrazia, i suoi valori e le dinamiche della sua comprensione nella società contemporanea. In particolare, il suo interesse è rivolto alla democrazia nel suo paese, che sappiamo avere una storia travagliata sofferta occupata, in cui il potere è stato sinonimo di coercizione, difficoltà e gerarchizzazione.

Poetica del dissenso, non c’è stato titolo più appropriato per presentare la “scelta” etica e estetica del suo lavoro.  Paz Errázuriz, nata a Santiago del Cile nel 1944, da subito ha cominciato a guardarsi attorno e ha capito che il suo sguardo poteva essere potente e decisivo contro la dittatura - tutte le dittature - e ha iniziato a lottare silenziosamente con la sua arma: la macchina fotografica. Una macchina fotografica per opporsi, per sentirsi libera, per contrastare il coprifuoco, contraddire la censura e l’idiozia oscurantista e violenta del suo paese. Per togliere il velo dell’indifferenza. Si avvicina alla gente, il suo soggetto.  Boxeur, travestiti, infermi, feste dei villaggi, centri psichiatrici, artisti circensi, emarginati, li incontra in spazi “governati” con un atteggiamento da antropologa. Così entra nei manicomi e porta la luce che c’è fuori, li apre al mondo, frequenta i locali loschi di Santiago, le vie malfamate della città infinita, traducendo sempre in bianco e nero le sfide dell’uomo agli uomini e alla solitudine della società cilena. In una sua immagine vediamo un travestito che ostenta una veste leggera e il suo sguardo lascia intravedere una sottile emozione. Ma è routine.

In Adam’s Apple, una serie di scatti del 1983, si ritrova la sequenza di cui fa parte questa immagine. Sono i gesti anonimi e privati di chi si sta vestendo, messi teatralmente in pratica per l’obiettivo. Si è conquistati dall’attenzione, dalla confidenza e dalla complicità della scelta di Errázuriz, ci si adagia sulla superficie del visibile e si tocca la dignità della vita stessa. È la sua misura di giustizia in una società complessa, per dare senso e forma al mondo della folla anonima dei molti. Uno, nessuno, centomila direbbe Pirandello.  Nella foto c’è Coral: la Carlina. È in un ambiente decadente, occupato solo da una sedia. I muri scrostati. L’inquadratura, rigorosa e quasi geometrica per via delle linee della pittura murale e del piano, ritaglia una certa regalità e una semplicità carica di tensione. È la bellezza della vita, del quotidiano disincantato che si fa sentire e cogliere. Sulla sedia, giusto sull’angolo, c’è appoggiata la cintura di stoffa del vestito, una linea bianca, come un disegno nello spazio: una metafora dell’attesa. Per il mio sguardo, questo è il punctum (si, quello barthesiano) che mi attira e colpisce silenziosamente. Un oggetto che pensa e una mancanza che fa pensare, che indirizza sull’etica dell’esistenza, la tira fuori, la fa spuntare nello spazio aperto, e racconta della felicità non legata al possesso ma all’uso delle cose. Per Paz Errázuriz negli ultimi anni il colore, per lavorare sulle tematiche dell’acromatopsia.

Quindi ancora al vedere il mondo in bianco e nero.

 


PER UNARTE CHIAVI IN MANO

Chiharu Shiota, The key in the Hand

di GIOVANNI BAI

 

Premessa metodologica. Riassumo brevemente e, molto probabilmente, molto banalmente: nel corso del secolo scorso abbiamo assistito a una mutazione genetica delle arti visive, dove le arti classiche si sono contaminate - ma questo era già avvenuto nel secolo ancora precedente - con le tecniche della riproduzione meccanica. Anche queste sono divenute, a loro volta, tecniche di produzione artistica. Tra gli ultimi decenni del novecento e oggi nuove tecnologie hanno ulteriormente mutato lo statuto di queste forme d’arte, riproponendo il paradigma fondamentale della bellezza. Qualcuno sostiene - io non ne sono affatto convinto - che tutto sia già stato fatto e quindi sia lecito copiare; non è certo facile proporre qualcosa di assolutamente nuovo e spesso, inconsapevolmente si ripercorrono sentieri già tracciati.

Non posso che accettare uno dei presupposti di questa Biennale - e forse anche delle ultime che l’anno preceduta - cioè di «formulare giudizi estetici sull'arte contemporanea, questione critica dopo la fine delle avanguardie e dell'arte non arte». Nel secolo scorso avevamo infatti accantonato il problema della bellezza immediata a favore di quella concettuale. Come accade anche per le Avanguardie storiche, oggi molte di  quelle opere, che  continuano a essere fondamentali,  forse non ci colpiscono più al cuore. Di sicuro non con quei brividi che ho provato - nel corso del 2015 - solo davanti a Friedrich (Caspar David) o a Giotto, ma anche a Venezia grazie a Martial Raysse.

L’unica opera che forse mi ha fatto questo effetto alla Biennale era il Muro Occidentale o del Pianto di Fabio Mauri, anche se, ammetto, forse agisce ancora la componente concettuale - anzi, ideologica - di quest’opera. Ma è un’opera del secolo scorso, e il suo autore è morto, purtroppo. Non nego che abbia senso parlare di futuro, o futuri, con opere del passato, ma, ecco, continuo a pensare che alla Biennale dovremmo trovare solo opere di artisti viventi. Troppo facile vincere con giganti come Fabio Mauri…  E poiché voglio mettere da parte l’ideologia - escludendo la ridicola messa in scena del Capitale - escludo perciò anche le falci, per quanto prive di martelli, del padiglione olandese.

L’opera su cui - brevemente - mi soffermerò non è però un ripiego, in quanto l’installazione di Chiharu Shiota The key in the Hand sicuramente possiede il requisito dell’impatto estetico che, per quanto magari facile, è per me oggi fondamentale:  la cascata rossa (no, l’ideologia non c’entra) in cui mi immergo mi procura un piacere immediato. Certo, in altre occasioni il padiglione giapponese mi ha emozionato maggiormente, sia in senso estetico che concettuale…

Come ben dice il curatore Hitoshi Nakano “la struttura spaziale delle sue installazioni mantiene un senso di bellezza per eccellenza senza perdere freschezza” trascendendo “i contesti linguistici, culturali e storici, nonché le circostanze politiche e sociali”. Ma, tutto sommato, mi sembra che in questa opera sia leggibile anche il desiderio di rappresentare in modo leggero la speranza in quel contesto di morte e incertezza provocati dallo tsunami postnucleare, che abbiamo visto in anni recenti nello stesso padiglione. Al passato segue quindi la “speranza della protezione delle cose di valore rappresentata dalle chiavi” -  dice Chiharu - come mezzo di trasmissione di sentimenti e ricordi, ma anche di valori tout court, aggiungerei.  Il tutto presentato in una suggestiva e perfettina messa in scena, che Renato Barilli ha così ben descritto: “una soluzione brillante, aggraziata ma anche leziosa”.